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Quelli che fanno di tutto per comprendere gli altri, quelli che fanno da ponte tra due culture, nonostante le sofferenze, quelli che sono ancora gentili, nonostante tutto. Questa è la storia di Sara Jane, una donna sarda/bergamasca, che ha deciso di trasferirsi a Dakar, in Senegal per riunire la famiglia.

Sara, era una ragazza che conduceva una vita tranquilla, in Italia tra lavoro e passioni artistiche, fino a quando si innamorò di un ragazzo senegalese, lavoratore , nella bergamasca. Decisero di avere figli e di continuare per un certo periodo a vivere in Italia, nonostante, andassero spesso in Senegal, durante le vacanze estive. A causa della crisi economica, che ha investito anche il nord Italia, la famiglia si è divisa : il padre, in Senegal, a lavorare, la moglie in Italia , con i figli.

Distruzione di un stereotipo tipicamente occidentale : Lavoratore extracomunitario, regolare, che perdendo il lavoro, si trasferisce nel paese d’origine. Donna italiana che accoglie, conosce ed interagisce con cultura Altra, quella africana, vivendo con loro.

Ai figli, manca il padre e, alla sposa il marito, quindi scelgono di trasferirsi a Dakar.

Distruzione di un stereotipo tipicamente occidentale : Dakar , è una città occidentale: ci sono abitazioni in mattoni, ville, scuole internazionali per i forestieri ( espatriati europei ed americani ), musei, supermercati con cibi e prodotti occidentali.

Sara si inventa una nuova vita o, forse riesce a realizzarsi come attrice, e portare avanti le sue passioni artistiche. Ma incontra degli ostacoli o pregiudizi razziali. Sara parla tre lingue : italiano, francese, wolof e, nonostante le sue capacità linguistiche e attoriali subisce aggressioni verbali e psicologiche da altri suoi colleghi: ” vai via che ci rubi il lavoro, voi bianche non sapete fare niente , tornate al tuo paese “.

Non solo, Sara viene ingiustamente attaccata in ambito lavorativo, per invidia o per pregiudizi, legati a rancori ancestrali rivolti ai colonizzatori bianchi, ma anche nella vita di tutti i giorni, dove le persone poco “sapute”, riflettono nella sua persona idee e pensieri , legati alla sua etnia di donna bianca europea : ” le donne bianche sono facili, non sono in grado accudire i propri figli e di cucinare “.

Distruzione di un stereotipo tipicamente occidentale: anche in Africa c’è una forma di razzismo, ma che si limita solo all’aspetto verbale e non fisico o discriminante. Alcuni pensano che sia solo un pregiudizio, rafforzato dai commenti sentiti dagli africani espatriati in Europa. Il fatto che nel loro Paese d’origine, gli africani diano così sfogo ai loro pensieri più reconditi, dimostra la poca libertà e soggezione al loro status di migrante , nell’esprimere il loro pensiero e nel trovare strategie di sopravvivenza, anche psicologiche, nei Paesi di accoglienza. La rabbia va veicolata, e spiegata , non solo repressa.

Sara, non si abbatte, perchè è sostenuta dalla sua nuova famiglia africana: vive in una famiglia “allargata “, in un cortile dove sono presenti altri nuclei familiari, parenti di suo marito: ognuno collabora nell’aiutare l’altro.

Distruzione di un stereotipo tipicamente occidentale: in Europa , si potrebbe definire” Housing sociale “, più persone che vivono nello stesso cortile o palazzo , che si aiutano a vicenda. Ma ci sono dei pro e dei contro, perchè la convivenza non è sempre facile da gestire, soprattutto in famiglie poligame o con problemi economici: chi guadagna di più, aiuta di più.

Per Sara, il Senegal, è la sua seconda Patria; i suoi figli hanno un doppio nome, per indicare che possiedono una doppia identità, per non dimenticare che possono essere entrambi e contemporaneamente sia italiani, sia senegalesi.

Distruzione di un stereotipo tipicamente occidentale: avere una doppia identità, conoscere più lingue, non porta alla schizofrenia o una crisi d’identità, ma arricchisce il bagaglio culturale e personale di una persona. Il territorio, circoscrizione geografica dove si nasce e anche, a volte in cui si vive, è solo una costruzione artificiosa moderna, nata per difendere un ‘appartenenza ad una nazione, ma valicare il confine non significa perdere quell’appartenenza. Essere cittadini del mondo significa, porta con sè valori, e usanze diverse e non essere solo iscritti ad un anagrafe.

Due cose che so:

1) Putin non è il popolo russo.
Il popolo russo è un popolo pacifico e ospitale legato all’Ucraina: molti russi hanno genitori, mogli, parenti, amici ucraini che parlano la loro stessa lingua. Putin è un oligarca violento e antidemocratico amante del lusso sfrenato, con un patrimonio valutato decine di miliardi (impossibili stime ufficiali), un omofobo guerrafondaio, un ex agente del kgb che perseguita e uccide gli oppositori politici e i giornalisti e ha tessuto rapporti con tutta l’estrema destra europea. È l’idolo di Le Pen e di Salvini: Salvini che non festeggia il 25 Aprile e che ha candidato, eletto e portato al potere con la Lega decine di esponenti del Movimento Sociale Italiano. Che l’obiettivo dell’idolo delle destre sia quello di «denazificare» l’Ucraina è ridicolo.
Migliaia di russi senza patrimoni miliardari scendono in piazza contro Putin per fermare la guerra rischiando l’arresto, come ha fatto ieri la giornalista Marina Ovsyannikova irrompendo in diretta sul primo canale della tv russa con un cartello che denuncia le menzogne della propaganda e venendo immediatamente arrestata.
Pensare di boiocottare Putin boicottando Dostoevskij e l’insalata russa (che comunque non è russa) e la vodka (che comunque non è prodotta in Russia ma in Svezia, seguita da Francia, Polonia, Paesi Bassi, Stati Uniti, Lettonia e – toh! – Italia) è ripugnante e idiota. Boicottare il caviale – IL CAVIALE – è una roba che può venire in mente solo a chi trova normale riunirsi nella reggia di Versailles mentre i popoli patiscono la guerra e la fame, un po’ come scendere in piazza il 25 Aprile con le foto di “Coco Chanel, patriota europea” (a forza di governare con Berlusconi e Salvini agli antifascisti si confondono le idee).

2) Zelensky non è il popolo ucraino.
Il popolo ucraino è un popolo pacifico e ospitale legato alla Russia: molti ucraini hanno parenti e amici russi che parlano la loro stessa lingua. Molti sono fuggiti in Russia prima e dopo lo scoppio della guerra. Tra le braccia dei loro amici e parenti, non tra le braccia di Putin.

La vice premier ucraina Iryna Vereshchuk ha detto ieri sera a Otto e Mezzo che il 90 per cento degli ucraini sono con Zelensky: non è vero.

Zelensky ha vinto le elezioni nel 2019 con la promessa di sconfiggere la corruzione sistemica degli oligarchi, portare il benessere economico, porre fine alla guerra in Donbass. Ha disatteso tutte e tre le promesse. Ha perseguitato come il suo predecessore gli ucraini russofoni, ai quali viene impedito di studiare nella propria lingua. Stipendia i neonazisti degli ex corpi paramilitari come il battaglione Azov, legato a Casapound (vedi foto), diventati esercito regolare ucraino – dunque pagati con le tasse versate dagli ucraini – e accusati dall’Ocse e dall’Onu di atroci crimini contro l’umanità. Crimini commessi per lo più in Donbass, durante una guerra che si combatte da 8 anni e ha fatto – stando solo ai morti certificati dall’Ocse – 14 mila vittime. Una guerra che Zelensky prometteva di fermare e che invece continua a combattere sparando razzi contro quello che dice di essere il suo popolo.

Nemmeno prima di deludere le aspettative del “suo” popolo Zelensky rappresentava il 90 per cento degli ucraini.
Celebre comico televisivo, protagonista della serie “Servitore del popolo”, dove vestiva i panni di un professore di storia che si candidava alle lezioni con l’ambizione di sconfiggere la corruzione e il sistema degli oligarchi, porre fine alla guerra e portare l’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato, cambia carriera fondando un partito che si chiama “Servitore del popolo” e si candida alle elezioni del 2019 con l’ambizione di sconfiggere la corruzione e il sistema degli oligarchi, porre fine alla guerra, portare l’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato.

Zelensky deve però la sua popolarità al più ricco degli oligarchi che dice di voler combattere.
Si tratta dello stesso oligarca che ha finanziato il famigerato battaglione Azov (nel caso qualcuno vi avesse già spiegato che quelli di Azov non sono nazisti ma nazionalisti, lascio la parola al portavoce di Azov, Andriy Diachenko, che nel 2015 ha spiegato che “solo” il 20 per cento dei componenti del battaglione si dichiara apertamente fan di Hitler, benché tutti loro adottino le svastiche, la simbologia e i saluti nazisti perché pervasi “dall’ideale di difendere l’Ucraina come Hitler difese la Germania”). L’oligarca in questione è il proprietario della tv 1+1, che produce e trasmette lo show-partito politico di Zelensky: il magnate e politico Ihor Kolomoisky, uno degli uomini più ricchi al mondo secondo Forbes, governatore della regione di Dnipropetrovsk fino al 2015, fondatore della più grande banca d’affari ucraina, la Privatbank, fallita dopo aver riempito le tasche di Kolomoisky e rifinanziata a spese del popolo ucraino, come prassi anche da noi.

Nel 2019, Zelensky ottiene il 30 per cento dei voti al primo turno di elezioni non democratiche. Non democratiche perché i partiti comunisti, che avevano il 15 per cento dei voti, sono stati banditi nel 2015 e mai riabilitati e i loro militanti perseguitati come qualunque partito, rivista, sindacato, giornale manifesti idee comuniste (non solo riferite all’Unione Sovietica ma anche critiche nei confronti di Stalin e legate al pensiero di Karl Marx e Rosa Luxemburg, ai quali in Ucraina erano dedicate vie e piazze che oggi hanno cambiato nome).
Ancora qualche giorno fa, a Kiev, Mikhail Kononovich, leader dell’ala giovanile del fuorilegge Partito Comunista ucraino (CPU), e suo fratello, Aleksandr Kononovich, sono stati arrestati dalle autorità ucraine e ora rischiano l’esecuzione.
Alle elezioni non prende parte la popolazione delle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk, che ha già votato per oltre il 90 per cento a favore dell’indipendenza da Kiev ma che ieri sera la vice premier ucraina ancora annoverava, insieme alla popolazione della Crimea, nel 90 per cento di ucraini con Zelensky, considerando la Crimea e i territori delle autoproclamate repubbliche popolari “territori occupati” (come del resto ha fatto tutto l’occidente, che riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli solo quando conviene alla Nato). In aggiunta, nella parte delle regioni di Lugansk e Donetsk ancora sotto il controllo di Kiev, e dove quindi nel 2019 si svolgono le elezioni, Zelensky viene sconfitto sia al primo che al secondo turno. Il primo partito è quello di Yuri Boiko, fautore della ripresa delle relazioni con la russia, votato perché garante del diritto degli ucraini russofoni di tornare a parlare, insegnare, pubblicare giornali nella propria lingua.

Al secondo turno, il servitore del popolo Zelensky sfida il presidente uscente Poroshenko, oligarca proprietario di catene commerciali (sua la cioccolata “Roschen”), altro miliardario censito da Forbes e responsabile del conflitto in Donbass, persecutore degli ucraini russofoni e legato anche lui al magnate Kolomoisky, l’editore di Zelensky, con il quale Poroshenko arriva alla rottura nel 2015, quando preme per le sue dimissioni da governatore.

Con la promessa di porre fine al conflitto, Zelensky ottiene al ballottaggio il 73 per cento dei voti. Una volta eletto, invece di attuare come promesso gli accordi di Minsk sull’autonomia del Donbass firmati dal suo predecessore, chiede di rinegoziarli. Spinge l’acceleratore sulla guerra mai cessata. Nel paese del servitore del popolo la corruzione è ancora sistemica: come mi ha detto una volta un’avvocata: «In Ucraina serve pagare per ottenere qualunque cosa e qualunque cosa si ottiene pagando». Quest’estate, a Marrakech, ero colpita dai molti annunci delle università ucraine di medicina: «Vieni a laurearti in Ucraina!». In Ucraina? Perché? «Perché basta pagare e diventi medico. Poi vengono a operare qui, ma se stanno male vanno a curarsi in Francia». «Ah». Gli stipendi pubblici sono miserrimi: gli impiegati faticano ad arrivare alla fine del mese. Le famiglie sono tornate a vivere tutte sotto uno stesso tetto, tre e anche quattro generazioni. Nonostante le difficoltà, non ho mai incontrato persone così ospitali e generose come in Ucraina.

Ci sentiamo ogni giorno. Sperano che la guerra finisca presto.
Non conosco nessuno che la stia combattendo. “Combattono i professionisti”, mi dicono. Quelli pagati, quelli obbligati. Gli altri sono scappati in tempo per non dover combattere o si nascondono. Chi ha i soldi si è rifugiato negli alberghi o nelle case al confine, chi non ha i soldi per scappare o non vuole lasciare la propria casa, il lavoro, i genitori anziani, i figli piccoli, si nasconde in cantina, aiutando come può, costruendo una rete di solidarietà, di soccorso, di aiuto, portando l’acqua e le medicine alla popolazione.

Non vogliono armi per combattere, vogliono tornare presto a vivere in pace. Per questo Zelensky è stato costretto a arruolare legionari stranieri, a distribuire armi a chiunque le accetti e a varare una legge aberrante che consente a chiunque di sparare, facendo saltare la distinzione tra civili e militari e autorizzando l’aggressore a colpire i civili di un popolo che sta ripudiando la guerra meglio di noi, che dovremmo farlo per Costituzione.

Il popolo ucraino non è Zelensky, con la sua villa da 4 milioni a Forte dei Marmi, è Alina con la sua mamma badante a Roma, che ieri ho accompagnato in lacrime dall’altra parte della città con sua figlia di sei anni, rifugiate in attesa di poter tornare a casa, presto: “Appena finisce la guerra”.
Abbiamo raccolto vestiti per loro. C’era un cappotto. Alina non lo ha voluto perché qui fa caldo e quando tornerà in Ucraina troverà i suoi cappotti che la aspettano a casa insieme a suo marito, che aveva aperto una falegnameria e l’aveva inaugurata il giorno prima dello scoppio della guerra.

Il popolo ucraino non è Zelensky in mimetica che, al sicuro da qualche località segreta, augura la morte a chi scappa (“Смерть бігунам!!”, “morte a chi scappa”, ha dichiarato in video riferendosi agli uomini tra i 18 e i 60 anni che non possono lasciare il paese), il popolo ucraino sono le decine di ragazzi maschi con i quali siamo in contatto e che sono scappati in tempo per non combattere perché non hanno nessuna intenzione di morire per Putin né per Zelensky o che si sono nascosti in cantina aiutando la popolazione come possono.

Mi è chiaro che delle ragioni che spingono questi nostri fratelli e sorelle a non imbracciare le armi non freghi niente a Zelensky, a Biden, a Draghi, a Putin, ai molti giornalisti, politici e analisti ospiti dei talk show che preferiscono eccitarsi per la bambina ucraina che imbraccia un fucile e farne un simbolo della resistenza, un’immagine che fino a qualche mese fa avremmo utilizzato per denunciare la violazione dei diritti dell’infanzia in remoti paesi africani non democratici.

Frega però parecchio a me, per questo ci tengo a dare loro voce. A dare voce a chi, in Ucraina, chiede la pace. Sogno in collegamento a Otto e Mezzo una madre, un ragazzo che spera di non morire e che la guerra finisca presto, cioè l’opposto della terza guerra mondiale evocata da Zelensky e dalla sua vice premier che insiste a chiedere la No Fly Zone da parte della Nato anche quando le viene spiegato che questo comporterebbe lo scoppio di un conflitto globale tra potenze nucleari, cioè l’inasprimento della guerra e la fine di quasi tutto per quasi tutti.

Io non so e non voglio sapere se Putin, Zelensky e gli altri oligarchi hanno pronta l’isola, il bunker, l’astronave per Marte o se sono semplicemente meno empatici, meno svegli, meno liberi o più malati di come ce li raccontiamo.

So che la guerra i popoli non la vincono mai, nemmeno quando la vincono i loro governi. I soldati muoiono o tornano a casa feriti nel corpo e nell’anima, spesso inadatti alla vita che avevano. Gli ospedali, i ponti, le fabbriche le stazioni, le scuole vengono distrutte, le famiglie terrorizzate e divise, le terre bruciate e chi vive di questo – andando a scuola, coltivando la terra, guidando un treno, lavorando in fabbrica o in un ospedale – si ritrova senza la vita che aveva da vivere, con tutto da rifare.

In molti stiamo ricostruendo gli obiettivi economici e strategici di Putin e di Zelensky, le cause del conflitto, le possibili conseguenze in termini di confini, equilibri commerciali, forniture di materie prime, alleanze militari. È giusto farlo. È giusto comprendere i ruoli e le responsabilità storiche di tutti gli attori coinvolti compresa la Nato, Stalin, Lenin e Pietro il Grande (magari ecco, ricordando chi è ancora sulla scena e chi no, chi oggi potrebbe fare la differenza e chi no).

Vorrei però che con lo stesso sforzo con cui ponderiamo le richieste dei contendenti, dell’aggressore che però se ne sta al caldo senza combattere e dell’aggredito che pure non sta al fronte, ponderassimo quelle attuali del popolo ucraino.

Le motivazioni che spingono Putin a insistere e Zelensky a resistere non sono infatti quelle dei loro popoli. Non sono quelle di donne, uomini, bambine, bambini, vecchi, soldati, profughi.

Cosa pensate direbbero se potessero essere loro – Marina, Yura, Olga, tutti nomi di fantasia che uso per non scrivere i nomi di chi mi scrive – a sedersi al tavolo delle trattative? Chiederebbero le nostre armi? L’intervento della Nato? La terza guerra mondiale? L’integrità territoriale del paese? Ci avete pensato? Li conoscete?

Cosa stabilirebbero se potessero sedersi loro al tavolo delle trattative, un russo e un ucraino, come i genitori di Marina Ovsyannikova, la giornalista arrestata per aver fatto irruzione sulla tv russa?

Cosa desidera in cuor suo oggi il 90 per cento del popolo ucraino? Di porre fine alla guerra a qualunque condizione. Questo mi dicono i miei amici in Ucraina: “Speriamo che finisca presto”. Non discutono i confini orientali, l’ingresso nella Nato o l’annessione della Crimea alla Russia, le responsabilità storiche.

“È facile chiedere la pace!”, mi viene detto da chi evidentemente considera Marina, Yura, Olga, mio figlio e me ingenui o vigliacchi o entrambi.

No. È più facile fare la guerra, perché chi la dichiara non deve combatterla.

Chi dichiara guerra non resta senza cibo e riscaldamento, ha messo per tempo al sicuro i propri cari in qualche confortevole residenza di una qualche località segreta, non rischia di perdere la casa perché ne possiede parecchie e parecchie altre può comprarne.

La pace, invece, si fa una fatica porca a farla e a chiederla, ma è l’unica soluzione praticabile per chi di casa ne ha una e di stipendio pure e ha i figli sotto le armi e rischia ogni giorno in più di guerra di perdere tutto quello che ha.

La guerra è praticabile solo per chi produce e vende armi e non le imbraccia, solo per chi le guerre le sta a guardare in tv come si guardano le partite di calcio, facendo il tifo per una squadra e per l’altra senza capire quali sono realmente le squadre in campo: gli oligarchi contro i poveri cristi, in ogni guerra.

La pace, per i poveri cristi, non è un’utopia: è un’utopia la guerra, la pace e il disarmo sono l’unica via.

Poi magari quello che scrivo non serve a niente, serve solo a voi sorelle e fratelli che mi leggete con il traduttore di google per sapere che non siete soli. Siamo in tante, in tanti, anche qui, anche in Russia, a chiedere la pace. Siamo in tanti qui in Italia a gridare, e non da oggi, che i popoli non si proteggono aumentando la spesa militare di 37 miliardi e diminuendo quella sanitaria di 25 miliardi, come abbiamo fatto qui in Italia. Si proteggono con la giustizia sociale, la cooperazione, l’internazionalismo. Siamo in tanti a chiedere di non armare la guerra. Quella in Ucraina e le altre 33 guerre in corso nel resto del mondo, delle quali non amiamo pubblicare le foto dei civili morti perché le bombe, quasi sempre, le abbiamo prodotte, vendute e sganciate noi o qualche dittatore utile nostro amico.

Vi penso ogni istante. Teniamoci stretti.

Lasciate stare i caporali, sono la nostra fortuna ! Queste sono le dichiarazioni di un imprenditore europeo. La posta in gioco delle politiche di gestioni flussi è probabilmente tutta qua : la produzione di forza lavoro disciplinata da un buon mercato . I cosidetti clandestini , più che scarti e marginalità, sono un elemento centrale di un sistema di produzione , e l’abbassamento dei diritti ha come prodotto , una diffusa ricattabilità –
( * I Caporali , sono intesi soldati militari organizzati sia dal popolo , sia dal Governo.)

La scelta di questo titolo non è casuale , nel descrivere la situazione drammatica e di terrore che sta avvenendo in Burkina Faso, in questo periodo e anche da molto tempo.

Il disordine sociale, la guerra civile e la povertà , sono tutte forme che producono una ricattabilità umana , fino al punto di violentare il proprio popolo.

La guerra civile in Burkina Faso, è iniziata dopo la decaduta del governo di Blase Compaorè, che ha governato con la tirannia per ventisette anni. Dopo le rivolte e subbugli avvenute per le strade della Capitale , si è instaurato un nuovo governo , un pò più democratico e popolare ( sembra che il nuovo Presidente ascolti le esigenze e i bisogni dei cittadini e che ci sia una maggiore partecipazione politica anche degli avversari moderati ), presieduto da Roch Marc Christina Kaborè.

L’allontanamento forzato di Blase Compaorè, rifugiatosi inizialmente in Costa d’Avorio, ha fatto sperare il popolo del Burkina , per un nuovo avvenire ma , non è stato così.

Nel 2016, c’è stato un attacco terroristico in una zona commerciale e turistica, nella capitale del Burkina, rivendicato da Al Qaeda , in seguito altri attacchi rivendicati dagli Jihadisti alle Chiese, villaggi ( Il villaggio di Sohal con almeno 160 morti ) e rapimenti di turisti e religiosi.

Il Burkina Faso è sempre stato un paese prevalentemente islamico , ha convissuto pacificamente con altre forme religiose, come quella cattolica, evangelista, protestante e animista: nella stessa famiglia , ci sono membri appartenenti a diverse credenze religiose e si rispettano vicendevolmente.

L’idea dei terroristi, dichiarata attraverso i media, di islamizzare tutto il paese e di praticare la jihad, la guerra santa per combattere il nemico , non ha senso, visto che la maggior parte della popolazione è musulmane ed islamica.

” Ci sono diverse forme di terrorismo :

C’è un terrorismo causato dai finanzieri occidentali ( offshore, azionisti bancari) che vogliono possedere le cosidette “terre rare” , con la presenza di minerari e metalli, essenziali per le nuove tecnologie e per l’elettronica, come il cobalto, grafite, litio, neodimio, niobio, praseodimio, il petrolio e, pietre preziose ,detto terrorismo finanziario.

Un terrorismo economico che include una proliferazione di armi e di traffico illecito che parte dall’ Arabia Saudita, agli Emirati Arabi, al Qatar, attraversando l’Africa dell’est fino ad arrivare a quella dell’ovest: i territori attraverso cui avvengono scambi illeciti sono controllati da forze militari occidentali, mandati a presiedere e difendere la popolazione autoctona contro i terroristi islamici. La presenza di Jihadisti e militari occidentali destabilizzano i territori del Sahel a causa dei continui saccheggi , violenze, morti e povertà, creando uno spostamento di sfollati denutriti e malati; tra il 2015 e il 2020 in Burkina Faso ci sono stati più di un milione di rifugiati.

Un terrorismo islamico , che impone la legge della sharia .

( cfr : Repubblica.it)

L’ex Alto Volta, ribattezzato Burkina Faso, la “Terra degli uomini integri”, dal leader rivoluzionario Thomas Sankara assassinato nel 1987, è oggi il principale teatro operativo dei gruppi jihadisti più attivi nella fascia sub-sahariana: lo Stato Islamico nel Grande Sahara dell’emiro Abu Walid al-Sahrawi e i qaedisti riuniti nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai Musulmani guidato dal capo tuareg Iyad Ag Ghali, che puntano ad aprire un corridoio per espandersi verso i Paesi della costa atlantica. Da una saldatura con i nigeriani di Boko Haram e dello Stato islamico in Africa occidentale rischierebbe di prendere corpo un nuovo Califfato integralista con ramificazioni dal Mediterraneo al Golfo di Guinea.

Sono presenti in Burkina Faso Iman fanatici e radicali, come Ibrahim Malam Dicko, che fondò Ansarul Islam, i “Difensori dell’Islam”, e diede inizio all’insurrezione armata con assalti a caserme e stazioni della polizia, assassinato nel Maggio 2017.

Ci sono koglweogo, “guardiani della boscaglia ” in mooré, l’idioma dei Mossi, sono le temibili milizie di autodifesa, legalizzate nel gennaio 2020: cinquantamila uomini armati di fucili da caccia e di coltelli che dovrebbero garantire la sicurezza nelle zone rurali dove militari e poliziotti non sono presenti. Ma sono implicati, assieme ai reparti speciali dell’esercito, in numerosi episodi di giustizia sommaria, rappresaglie e massacri della minoranza Peul, che cerca di conseguenza la protezione, e la vendetta, dei miliziani islamisti: milizia assai discussa perchè riversano la loro violenza verso i loro concittadini burkinabè.

In Burkina Faso abbiamo diversi gruppi armati da miliziani “fai da te “, militari del governo e gruppi armati islamici fanatici in balia di una corruzione e ricattabilità imperante.

I giovani vengono arruolati dai gruppi jihadisti, con la promessa per un futuro migliore e con la convinzione che stanno lottando per il Paese e per Allah. “

Questa è un intervista rilasciata a Luglio 2021 da un sankarista burkinabè in Burkina Faso .

Forse dovremmo soffermarci sulla parola terrorismo, scollegata dal suo “omonimo” jihadismo , ma dal suo vero significato, cioè quello di creare paura, angoscia e violenza e, tutte e tre le forme di “terrorismo” elencate provocano uno spostamento delle popolazione assoggettate da guerre civili e geopolitiche.

Se un imprenditore europeo, volesse che i “caporali” militari continuino a creare subbuglio in Africa, per creare una forza lavoro in Europa, vuol dire che ci stiamo nascondendo dietro ad un discorso ipocrita di salvaguardia delle popolazione più oppresse , il che non è vero, non stiamo aiutando nessuno , stando ai vari reati di terrore che accadono in Burkina Faso .

Illustrazione di José Guadalupe Posada

Non vi è mai capito di andare al solito baretto , un pò sgarrupato e distante  da casa , ma vi sentite accolti e a proprio agio?

Qualche birretta, con i soliti amici, circondati da gente più o meno dello stesso ambiente culturale e sociale.

Se dovessimo fare un analisi sulla situazione appena descritta, potremmo dire che ci troviamo all’interno di un gruppo di appartenenza di riferimento : amici, simili a noi , con cui abbiamo un comportamento confidenzale, in un ambiente urbano consono ai nostri bisogni sociali e culturali.

La nostra identità sociale è pienamente soddisfatta : relazioniamo attraverso un comportamento sociale, legato all’identità,  che indica un ruolo sociale all’interno di un gruppo. Il modo di comportarsi , di relazionarsi è legato all’identità che abbiamo scelto nel comunicare, ovvero al ruolo sociale, riferito a quel contesto.

Comunichiamo chi siamo attraverso i segni della nostra identià sociale ( vestiti, oggetti, linguaggio ). Per entrare in comunicazione con l’Altro cerchiamo di capire chi è : le persone cercano di comunicare attraverso il loro self , a volte distinguendosi dagli altri o cercando i propri simili.

L’identità sociale , come abbiamo detto è legato anche al contesto sociale,  culturale di riferimento e , da un insieme di codici comunicativi verbali e non verbali condivisi e riconosciuti.

Cosa dovrebbe succedere se il “ solito baretto “,  dovesse chiudere o trasformarsi integrando nuovi servizi di innovazione culturale?

Il nostro ruolo sociale è compromesso. Il processo di identificazione sociale legato al territorio d’appartenenza non è più lo stesso, dovremmo trovare soluzioni alternative per il nostro self identitario.

Nel primo caso, riferito alla chiusura del locale, comporterebbe una trasmigrazione da un ambiente culturale ad un altro: si innesca un processo di adattamento e di ridentificazione  del  ruolo sociale.  La nostra identità non è spezzata , non è annullata ma si  rinnova: la nostra identità è in relazione al contesto in cui interagiamo e quindi può variare in base al ruolo che si tende ad assumere in un determinato ambiente.

La nostra identità sociale è anche un identità plurima o multipla, che si autodetermina a seconda delle relazioni e comunicazioni che  intercorrono tra se stessi e gli altri.

Noi non siamo solo “ gli amici del baretto “, ma siamo anche figli, genitori, studenti, lavoratori, in definitiva siamo persone che hanno un codice comportamentale e linguistico basato sulla nostra provenienza culturale, familiare e sociale. L’identità plurima è riferita ai tanti ruoli sociali che utilizziamo per comunicare e relazionare in modo convenzionale con Altri, appartenenti a vari ambienti sociali o della sfera personale.

La reazione per la chiusura del bar, può essere una trasmigrazione o un comportamento manifesto della collettività in disaccordo con la decisione presa.

Dal punto di vista della rigenerazione urbana, questo evento si può definire traumatico, perchè i clienti abituali del bar non sono stati interpellati  , non hanno potuto scegliere , ma è stata un imposizione calata dall’alto: non c’è stata una decisione presa collettivamente; quindi a casusa di strategie capitalistiche neo liberali, è stato decisio di eliminare un luogo di partecipazione, di condivisione e sociale.

Le pratiche adottate dagli studiosi di policy market, si indirizzerebbero verso strategie di innovazione culturale e artisitche , sia per salvare economicamente il locale ma anche per creare o potenziare il contesto urbano di riferimento, attuando politiche di governace urbane , elaborando progetti di riqualificazione urbana.

Una pianificazione urbana e architettonica, un implemento dei servizi per i cittadini di quel determinato quartiere : eventi artistici , musicali, incontri partecipativi per la collettività; tutti questi sono fattori che contribuiscono ad una rigenerazione urbana.

Ma siamo sicuri che tutto questo giovi alla collettività d’appartenenza del luogo ?

Una rigenerazione urbana , purtroppo può avere aspetti negativi solo se, non si tiene conto dei bisogni effettivi di coloro che abitano e frequentano quel luogo.

Un aspetto è legato alla gentrificazione  urbana : altre persone, di varie provenienze , ripopolano un determinato luogo, spesso non integrandosi ma creando una esclusione sociale per coloro che già appartenevano a quel contesto. Ruoli sociali con mappature di codici linguistici e culturali differenti che “cozzano” con la popolazione del posto. Questo è successo a Brooklyn, a New York : c’è stato un aumento degli immobili e degli sfratti  che hanno causato violenze sociali .

Il nostro ruolo sociale è legato fortemente al contesto sociale e abitudinario, in cui negli anni abbiamo creato e definito i rapporti con gli altri, simili a noi o con cui condividiamo lo stesso luogo. Ma noi siamo anche corpo, che identifica un aspetto fisiologico e non solo di identità.

Avere ed usufruire di  identità plurime, ci permette di mettere in atto delle strategie di sopravvivenza : relazionare e codificare una nuova realtà, ma il nostro corpo richiede altri tipi di sforzo, riferiti nel soddisfare i bisogni primari : cibo, lavoro, famiglia ed interazione sociale.

Un individuo può assumere un altro ruolo strategico, solo se vengono soddisfatti i suoi bisogni primari.

Gli studi relativi alla riqualificazione urbana dovrebbero includere una politica di governance urbana che parti dal basso, che  coinvolga la popolazione attraverso una partecipazione più attiva nel processo decisionale all’interno di un sisterma di network tra domanda e offerta secondo la logica di un mercato capitale sociale e di innovazione culturale.

Piastrellare un area verde e metterci delle panchine, creare housing sociale in cui govani ed anziani vivono nello stesso palazzo, far ripulire le strade a giovani migranti, sono progetti sociali innovativi contemporanei ma che non tengono conto sia dell’aspetto dell’eco sostenibilità,  intergenerazionale e stereotipo sociale.

Per una buona pratica relativa alla rigenerazione urbana è necessario considerare il concetto di intersezionalità che indica la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e di quelle che possono essere le relative discriminazioni, oppressioni, o dominazioni.

BEYONCÈ, LA PINKWASHING IMPECCABILE.

Pubblicato: 5 settembre 2021 in RACCONTI

Ho appena finito di ascoltare il podcast di “storielibere.fm- Morgana di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri, sulla vita di Beyoncè, considerata una icona, attivista e femminista per molte ragazze e donne afro-americane.

Sia Murgia che Tagliaferri, descrivono non solo la carriera della cantante tra fatti e misfatti familiari, ma anche la sua emancipazione personale e femminista.

Beyoncè nasce in una famiglia privilegiata, benché nera, incoraggiata dal padre ad intraprendere fin da piccola la carriera come cantante.

Beyoncè mira a diventare una donna impeccabile: attenta alla linea, al look , alla precisione per le sue coreografie. Nonostante nei suoi video, compaiono immagini di se stessa come la femme fatal o la Khaleesi, la regina del Trono di Spade, ne va molto fiera , perché il suo intento, non è solo quello di incantare ma soprattutto di diffondere un messaggio forte e chiaro :

” Noi donne, dobbiamo necessariamente lottare per l’autonomia lavorativa e la parità retributiva.”

Beyoncé decide di diventare imprenditrice di se stessa fin da giovane , includendo nel suo team , anche i suoi genitori.

Nonostante , il suo successo e la sua costanza nel dimostrare che con la volontà e il duro lavoro, si possono realizzare i propri desideri, viene fortemente attaccata da un altra femminista nera, bell hooks , accusandola di essere una terrorista pinkwashing.

Beyoncè, dice la hooks :

“Incarna l’idea di donna nera , socialmente accettabile, in una società di bianchi. Mettere in mostra dei bei corpi di donne nere non contribuisce a creare una cultura equa di benessere, in cui le donne nere si possono realizzare ed essere rispettate. “

Essere una pink washing, significa avere un atteggiamento falsato per quanto concerne l’utilizzo dei termini e concetti inerenti al femminismo per scopi puramente personali.

Forse nella canzone “single ladies” in cui Beyoncè sperava di avere un anello al dito, avremmo potuto dare ragione alla “temibile” professoressa bell hooks, ma ascoltando una sua recente canzone intitolata ” flawless “, è esplicita una chiara presa di posizione della cantante, come attivista e femminista intersezionale. Nella canzone, appena citata , si nominano alcune frasi del discorso di una altra femminista nera , Adichie Chimamanda Ngozi :


” Insegniamo alle ragazze a rimpicciolirsi per farsi più piccole

Diciamo alle ragazze, puoi avere ambizioni ma non troppe
Dovresti mirare ad avere successo, ma non troppo successo

Altrimenti minaccerai l’uomo


Perché sono femmina, ci si aspetta che aspiri al matrimonio
Ci si aspetta che io faccia le mie scelte di vita
Tenendo sempre presente che il matrimonio è la cosa più importante
Ora il matrimonio può essere una fonte di gioia, amore e sostegno reciproco
Ma perché insegniamo alle ragazze ad aspirare al matrimonio


E non insegniamo lo stesso ai ragazzi?


Alziamo le ragazze per vederci come concorrenti
Non per lavori o per risultati, che penso possa essere una buona cosa
Ma per l’attenzione degli uomini
Insegniamo alle ragazze che non possono essere esseri sessuali
Nel modo in cui sono i ragazzi
Femminista: la persona che crede nel sociale
Parità politica ed economica dei sessi. “

Alcune femministe ritengono che Beyoncè, per vendere si svende, mentre per altre, come per Janet Mock considera che :

” il modo in cui ci presentiamo non è un unità di misura della nostra credibilità. Queste classifiche di rispettabilità, che le generazioni di femministe hanno fatto proprie, non ci salveranno dalla visione patriarcale del mondo. “

Come ha sottolineato Michela Murgia, fin ora non ci sono state cantanti italiane che si sono prestate nell’accennare nelle loro canzoni , frasi e pensieri di femministe, ma si sono schierate per sostenere la campagna contro la violenza sulle donne.

L’America ha uno star sistem ben diverso da quello italiano e anche per una donna nera ricca , non è sempre facile affermare le proprie idee. Beyoncè può non piacere , perchè quello che cade di più all’occhio è l’immagine , il look e lei sa giocare bene in questo ma, bisogna contestualizzare anche il luogo culturale in cui è nata e cresciuta e, se usa la sua popolarità per diffondere messaggi di speranza e di intraprendenza rivolgendosi alle ragazze nere americane, non c’è niente di male.

Michela Murgia dice :

” E’ più ascoltata e seguita una Beyoncè e una Chiara Ferragni, che una accademica femminista. “

Sarà anche vero , ma interroghiamoci sul motivo di questa scelta.

Le ragazze contemporanee hanno difficoltà nel concentrarsi, sono attratte più dall’immagine che dal contenuto o sono alla ricerca di un icona da seguire e da imitare che mostra un intellettualismo glamour ?

Per quanto riguarda il femminismo italiano , nonostante stiano prendendo forma nuove evoluzioni femministe , come le intersezionali e plurali, aperte ad una maggiore dialogo inclusivo e di confronto con gli uomini, spazio per le donne nere o di origine straniera italiane, non c’è n’è ancora. Siamo ancora viste attraverso occhi caritatevoli e categorizzate in scompartimenti stagni: ogni donna ha una storia, può essere simile ma è particolarmente diversa.

Ascoltiamoci senza rivalse, contribuendo a riscrivere un nuovo movimento femminista che sia intra/ inter generazionale, intersezionale e plurale.

#beyoncè #femminismo #intersezionale #pinkwashing #bellhooks #AdichieChimamandaNgozi #michelamurgia

dal minuto 27.06 al 32.39 parte sul femminismo

“Stai zitta”

Pubblicato: 16 aprile 2021 in RACCONTI

Michela Murgia lancia il manifesto di cori di voci, al femminile, che rispondo alla domanda: quale è la frase sessista che non vorresti più sentire?

Io qui sotto ho riproposto il mio, perchè fin ora non ho visto, nel video donne di altre etnie, che manifestano il loro disappunto.

Il femminismo contemporaneo, se non è intersezionale, non è femminismo.

GENTRIFUGATION NERA INTELLETTUALE

Pubblicato: 15 aprile 2021 in RACCONTI

da HuffPost c’è un articolo interessante di una autrice/ giornalista, presumo, afro italiana, se si vuol chiamare in questo modo ( c’è un dibattito molto acceso tra i ragazzi di seconda generazione , alcuni si definiscono italiani , altri solo africani e altri, bho, non so.) #NadeeshaUyangoda, che ha scritto un libro, il cui titolo richiama molto quello di Virginia Wolf, “L’unica persona nera in una stanza”. Nel suo libro si parla di ragazzi di seconda generazione, figli di immigrati, che vivono in Italia , in un ambiente di bianchi. Nell’articolo si discute, soprattutto del riconoscimento da parte della società italiana, dell’identità afro- italiana o di neri che vivono in Italia, quasi inesistenti nelle cariche pubbliche, private e nelle liste elettorali. La non percezione del nero e soprattutto delle sue possibilità nel campo politico , lavorativo e sociale deriverebbero dal colore della pelle. Il #colorismo, non può essere una derivazione del razzismo. il colorismo è relativo ai gruppi interni di neri o comunque di persone della stessa etnia ma di “sfumature” differenti, mentre il razzismo è sistemico e legato al colonialismo. Questo è solo un appunto fondamentale, per sottolineare, che molti ragazzi di seconda generazione scrivono, senza approfondire o conoscere etimologicamente certe parole, copiate, traslate da teorici intellettuali afro- americani o afro-francesi o semplicemente afro- discendenti.

In Italia non esistono solo i figli di migranti, e questi non possono e non devono rappresentare tutti i neri presenti sul territorio italiano. Molto spesso, non c’è stata una relazione tra figli di migranti per sentimenti di risentimento nazionale o di “paura” nel confrontarsi con altre etnie. Negli anni ’90 e successivamente, c’è stata una migrazione massiccia dall’Africa: prima sono arrivati gli uomini, poi le mogli con figli e nonostante, questo incontro tra gente, i ragazzi trovandosi nelle scuole , non sono riusciti a comunicare tra loro; c’è stato bisogno dell’avvento di internet e dei social media per creare gruppi, legami ed incontri.

La nascita di blog, di gruppi di afro-discendenti in facebook o in altri social media, permette un accostamento intimo, nel senso dei dibattiti e discussioni , spesso personali o legati ad aggressioni razziste subite, ma non un avvicinamento fisico.

Sono uniti nella lotta, nel condividere certi termini e certi atteggiamenti, ma il tutto deve rimanere etereo, salvo qualche manifestazione sporadica; e anche in questi gruppi subentra il famigerato #policycorrect : usare solo certi termini, avere un unico orientamento politico, logico e filosofico.

Concludendo: siamo veramente sicuri che in Italia esistono solo questi neri ?Purtroppo i social media stanno pubblicizzando e analizzando solo la vita di alcuni neri, figli di immigrati, trentenni o ventenni che da soli pochi anni, scrivono riflettendo sulla loro vita personale, giocando con termini che non ci appartengono : c’è una #gentrifugation intellettuale da non sottovalutare.

Per quanto mi riguarda da donna nera, adottata, quarantenne e italiana, spesso non mi ritrovo nei loro discorsi e per questo tacciata.

Non ha senso dire alle nostre figlie:

“Il corpo è mio e decido io ! “
“Io posso decidere all’ultimo di dire di no!”
” posso far sesso con chi voglio!”

Non so in quale posto del pianeta viviate..io vivo al nord, a Bergamo e so di certo che certe cose non si possono ancora liberamente dire o fare, altrimenti si diventa immediatamente un outsider, bordeline o bullizzata. Perchè?
Per colpa degli obiettori di coscienza,
Per colpa di alcune donne stupide , come quella del video che spiega come provocare un uomo..

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=2598157607143112&id=1520003401625210


( se attizzi il fuoco, poi non puoi scappare!!)


Per colpa di altre donne o amiche che nel momento della difficoltà o spariscono, o sono troppe impegnate o mettono un emotion.
Per colpa di uomini retrogradi che pensano di essere più di noi donne.

Ci sono molte ragazze che si “vestono” di slogan, sentiti, letti o semplicemente ascoltati ma non sono in grado di contestualizzare o comprendere a fondo le parole espresse.

La società è cambiata e, nonostante le lotte delle nostre madri e sorelle femministe, un pò più grandi di noi, una rivoluzione culturale plurima , soprattutto per i maschietti, non c’è stata del tutto.

Si, è vero, io posso eticamente, poter andare in giro, vestita come desidero ma, le conseguenze sono ben altre rispetto al combattere un potenziale stupratore con slogan ad- hoc .

Non ce n’è, nonostante siamo in questo maledetto anno, gli uomini non sono ancora riusciti a vederci come compagne, alleate, amiche, amanti e non solo strumenti per il loro piacere e bastoni per la loro vecchiaia.

Allora cosa abbiamo omesso nel discorso femminista?

Secondo, Meagan Tyler abbiamo parlato di un femminismo mainstream ma non di liberazione.

“Il femminismo non riguarda la “scelta”, ma la liberazione delle donne. Il femminismo che si trova in giro più facilmente, quello più mainstream, non menziona mai la liberazione delle donne, opta invece per una celebrazione della “scelta”. Leggo quasi tutti gli articoli online sul femminismo e i commenti subito si trasformano in un dibattito sulla scelta. Non sembra importare quale sia l’argomento, le persone si affrettano a ridefinire il problema come diritto di scelta delle donne. Ciò fornisce un netto diversivo dal parlare delle più grandi strutture di potere e norme sociali che limitano le donne, in molti modi diversi, in tutto il mondo. È stato un mese importante per “il femminismo della scelta”. A fine Marzo, l’impero della rivista di moda Vogue ha lanciato un video “My Choice” in India come parte della campagna di Vogue Empower che, letteralmente, ha ridotto l’empowerment delle donne a una serie di scelte.
Il video è diventato virale e, come ha notato il giornalista indiano Gunjeet Sra, l’ipocrisia di un settore basato sul feticismo, l’oggettificazione e il rafforzamento degli standard sessisti di bellezza sulle donne è stata in gran parte ignorata.
Questo marchio liberale del “femminismo della scelta” è seguito alla sua logica, seppur assurda conclusione, quando un candidato liberaldemocratico nelle imminenti elezioni del Regno Unito ha cercato di spiegare le riprese di lui che faceva una lap dance in uno strip club. Apparentemente, tutto faceva parte della sua missione femminista per aiutare a “dare potere alle donne di fare scelte legali, non per giudicare le scelte legali che fanno”.
Anche Playboy ha recentemente deciso di ponderare i punti più sottili della teoria femminista e si è espresso a favore del diritto di una donna di essere sottoposta allo sguardo pornografico. Che, convenientemente, si adatta molto bene al proprio piano industriale, naturalmente.
Prima di tutto, gli argomenti di scelta sono fondamentalmente errati perché assumono un livello di libertà assoluta per le donne che semplicemente non esiste. Sì, facciamo delle scelte, ma queste sono modellate e costrette dalle condizioni disuguali in cui viviamo. Avrebbe senso solo celebrare acriticamente la scelta in un mondo post-patriarcale.
L’idea che più scelte equivalgano automaticamente a una maggiore libertà è una menzogna. Essenzialmente è questo che si limita a vendere il neoliberismo con un tocco femminista. Sì, le donne ora possono lavorare o restare a casa se hanno bambini, ad esempio, ma questa “scelta” è piuttosto vuota quando l’educazione dei figli continua a essere costruita come “lavoro delle donne”, non vi è sufficiente sostegno statale per l’infanzia e le donne sono accusate di essere egoiste. L’attenzione alle scelte delle donne si è tradotta in un perverso tipo di victim blaming e in una distrazione dai problemi reali che le donne devono affrontare. Se non sei felice di come stanno le cose, non incolpare la misoginia, il sessismo, il divario salariale, i ruoli di genere radicati, la mancanza di rappresentanza delle donne nei consigli di amministrazione o in parlamento, o un’epidemia di violenza contro le donne. Biasima te stessa. Ovviamente hai fatto la scelta sbagliata.
Come sottolinea la sociologa Natalie Jovanovski nel suo capitolo Freedom Fallacy, non sorprende che questo tipo di femminismo liberale sia diventato un punto di riferimento. Privilegiando la scelta individuale sopra ogni altra cosa, non mette in discussione lo status quo.
Non richiede significativi cambiamenti sociali e mina efficacemente le richieste di azione collettiva. Fondamentalmente, non ti chiede niente e non offre nulla in cambio. La pornografia viene rinominata come emancipazione sessuale.
La labioplastica è vista come utile miglioramento cosmetico. L’oggettificazione è il nuovo potere.
La giornalista Sarah Ditum ha definito il “Puoi essere una femminista e …”. Come se il vero problema dei progressi delle donne fosse se possiamo o meno vivere un ideale femminista favoleggiato.
Così approfondita è l’individualizzazione del “femminismo della scelta” che quando le donne criticano particolari industrie, istituzioni e costruzioni sociali, vengono spesso accolte con l’accusa di attaccare le donne che vi partecipano. L’importanza di un’analisi a livello strutturale è stata quasi completamente persa nella comprensione popolare del femminismo.
A titolo di confronto, sembrerebbe piuttosto ridicolo suggerire che criticando il capitalismo un marxista stava attaccando i lavoratori salariati. Allo stesso modo sembrerebbe molto strano suggerire che coloro che criticano il Big Pharma odiano le persone che lavorano nelle fabbriche farmaceutiche. O che quelli che mettono in dubbio la nostra dipendenza culturale dal fast-food lo fanno per i ragazzi dietro il bancone di McDonalds.
In definitiva, la promozione della “scelta” – e il mito di un’uguaglianza già raggiunta – hanno ostacolato la nostra capacità di sfidare le stesse istituzioni che trattengono le donne. Ma la lotta non è finita. Molte donne stanno riaffermando che il femminismo è un movimento sociale necessario per l’uguaglianza e la liberazione di tutte le donne, non solo banalità sulla scelta.”

E LI’ TI TROVO

Pubblicato: 28 Maggio 2020 in RACCONTI

I miei viaggi durati anni e mai finiti: un miscuglio di odori, di razze e di cibo, sballottata di qua e di là dal vento e dalla curiosità, occhi attenti a tutto ciò che è nuovo. La melodia degli idiomi parlati e dei discorsi ascoltati che si insuano nei gesti di svariate vite quotidiane: iniziali e cordiali approcci, che con il passare del tempo e della confidenza conquistata, si trasformano in melange di accenti gravi e scherzosi; le tre parole di rito : – Buongiorno, Come stai ?, Grazie. – e il susseguirsi di maestranze, di sguardi guardinghi e solari. La natura, ingombrante, oltraggiosa, osservatrice: è lei che supera la misura ordinaria della nostra solita percezione. Non siamo in città , non siamo a casa ma siamo ritornati alla nostra Madre Terra, conosciuta fin dai tempi che furono, dimenticati con il passare delle ere. Rinasco di fronte alla semplicità terrena; rinasco, passeggiando nelle foreste incontaminate, facendomi accarezzare dalle foglie di rami di alberi rigogliosi e templari; rimpiango questa semplicità nel nutrirmi dagli alberi, nel passeggiare in mezzo alle vacche o ad altri animali nascosti, di odorare aria pulita e ormai per me malsana: troppo pura. Così ho scelto di partire, all’improvviso lasciandomi tutto alle spalle per trovare una speranza contro tutto l’odio che ricevo, per trovare nuove strategie di resilienza che devo mette in atto, ogni giorno per non perdere me stessa; devo correre verso la Madre Terra, lei mi può salvare, lei mi può capire perchè mi conosce da quando il mio pensiero si è fatto donna. E lì ti trovo, figlia mia, in un villaggio sperduto, su un isola poco abitata. Per raggiungerti ho dovuto prendere due aerei, un bus e una barca, ma tu eri lì ad aspettarmi. Inizialmente non ti ho vista, anche se sei già in mezzo a loro, ai bambini famelici e urlanti, che fanno a gara per essere al centro dell’attenzione. Tu esile, come una piuma, ti avvici in punta dei piedi; indossi un semplice vestitino rosso, il mio colore preferito, lungo fino alle gambe magre e timide e una stoffa scura che ti copre la testa e il viso. Ti sei avvicinata anche tu piano piano perchè, vuoi mangiare con noi, sorridi, non vuoi essere accarezzata; guardi noi, gente forestiera, anche se sono nera come te, incroci i nostri sguardi e poi scappi ridendo. Io inebetita dall’allegria spontanea dei tuoi fratelli, ti guardo, cerco di raggiungerti, allungando il mio dito impregianto di crema solare, pronta a disegnarti una mia impronta sul tuo viso. Tu vedi gli altri divertiti con le facce dipinte di bianco, allora decidi di venire verso di me; ora posso accarezzarti solo con un dito, poi con una mano , infine con lo sguardo . Le nostre mani non si separeranno più per tutta la giornata: durante le passeggiate per il villaggio, alla casa costruita sul Baobab e mentre canti con i tuo fratelli. Ti ho sognata, prima di incontrarti, mi ricordo solo i tuoi occhi grandi e silenziosi: eri lì accanto a me che guardavi seriamente il continuo trafficare della mia vita caotica fatta di rabbia, delusioni e pochi momenti sereni. Devo andare, non possso stare sola qui con te, gli altri non lo permetterebbero; non so come ti chiami, non te l’ho chiesto, non era importante; devo correre, devo combattere le mie battaglie e ora anche per te, cara figlia ritrovata.

ABBIAMO PERSO

Pubblicato: 18 aprile 2020 in RACCONTI

La mente corre …il corpo sta fermo…

“Chi la dura la vince”…”
Ci hanno sopraffatto, ci hanno schiacciato..ora ognuno di noi..deve cavarsela da solo.
I 30 enni, i 40 enni, i 50 enni hanno fallito non avendo avuto la lungimiranza di prevedere che questo benessere non sarebbe potuto durare per sempre..sopraffatti dai sogni e progetti personali, li rincorrevano;  abbiamo perso il senso dell’essere umano..stare vicini, stare insieme..
E soprattutto lottare contro il sistema capitalista globalizzato, quella parte più becera e disumana che ci sia come l’assimilazione e il livellamento morale e valoriale..
Schiavi siamo : aneliamo al successo  alla carriera , al benefit, all’oggetto prezioso..
E la salute? Uff..questa volta è andata bene, per ora, anche se il cuore mi correva a mille !!
Pandemia, quarantena, covid, vaccini, mascherine,  tamponi, complotti, polveri sottili, positivi, negativi, app , TU  PUOI, io non posso, fase 2 , fase 3, si riapre, suicidi, abbandoni, ABBIAMO FAME,isolamento, pazzia, bambini soli, niente arte, niente aperitivi, STATUS ONLINE, incertezza, QUANDO?
Le parole fanno da contorno ad un quadro da delineare e mostrare, da capo,  di nuovo.
Buona rinascita …una nuova vita ci aspetta..
1585953138861
Virus words